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Io, nelle mia felicità naturale, scansavo tutti i miei pensieri dalla morte, come da un impossibile figura di vizi orrendi: ibrida, astrusa, piena di male e di vergogna. Ma nello stesso tempo, quanto più odiavo la morte, tanto più mi divertivo e mi esaltavo a far prova di audacia; anzi, nessun gioco mi piaceva abbastanza, se non c’era il fascino del rischio. E così, ero cresciuto in questa contraddizione: di amare la prodezza, odiando la morte. Può darsi, tuttavia, che non fosse una contraddizione.
Tutta la realtà mi appariva limpida e certa: solo la macchia astrusa della morte la intorbidiva; e dunque i miei pensieri, come ho detto, indietreggiavano con orrore, a quel punto. Ma in simile orrore io credevo di riconoscere, d’altra parte, forse un indizio fatale della mia immaturità, quale la paura del buio in certe femminelle ignoranti (l’immaturità era la mia vergogna).
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Quando nasceva una femmina, a Procida, la famiglia era scontenta. E io pensavo alla sorte delle femmine. Da bambine, esse ancora non apparivano più brutte dei maschi, né molto diverse; ma per loro non c’era la speranza di poter diventare, crescendo, un bello e bravo eroe. La loro sola speranza, era di diventare le spose di un eroe: di servirlo, di stemmarsi del suo nome, di essere la sua proprietà indivisa, che tutti rispettano; e di avere un bel figlio da lui, che somigliasse al padre.
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Nell’annunciarmi che sposava quella ignota napoletana, mio padre, con un tono doveroso (che pareva artefatto, tanto gli era insolito), mi aveva detto: - Così tu avrai una nuova madre. – E io, per la prima volta da quando ero nato, avevo provato un senso di rivolta contro di lui. Nessuna donna poteva dirsi mia madre, e nessuna io volevo chiamare con questo titolo, fuorché una sola, che era morta! Adesso in quest’aria brumosa, io la ricercavo, l’unica mia madre, la mia regina orientale, la mia sirena; ma lei non rispondeva. Forse, per l’arrivo dell’intrusa, si era nascosta o era fuggita via.
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D’un tratto io presi una corsa e, sopravvenendole alle spalle le dissi: - Sono qui.
In un trasalimento di sorpresa, si volse contenta,; e rimbrotto: - Dove te ne stavi? Già ti metti in giro!
Quindi come confusa da un che di aggressivo nei miei modi, mormorò, riguardandomi: - Artù, in questi pochi giorni ti sei fatto più alto…
A tali sue parole (sia per davvero, durante la breve malattia, io fossi cresciuto un altro poco, o sia piuttosto che lei, scalza com’era, mi si svelasse più piccola del solito) io mi accorsi allora, per la prima volta, che la sopravanzavo ormai di statura.
Questo mi parve il segno di una mia potestà anziana, fiera e gioiosa; e intanto ella si andava discostando impercettibilmente da me: ciò era come confessarmi che le batteva il cuore… All’improvviso la strinsi, baciandola sulla bocca.
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L’ho detto, che quella fu una bizzarra stagione per me. Il contrasto tra me e la matrigna non era che uno degli aspettidella grande guerra che, rapidamente, col rifiorire della primavera, sembrava essersi scatenata tra Arturo Gerace e tutto il creato restante. Il fatto era che il ritorno della bella stagione in quell’anno per me si accompagnò, credo, col passaggio di quell’età, che vien detta, dalle buone famiglie, età ingrata. Non m’era mai accaduto, prima, di sentirmi così brutto: nella mia persona, e in tutto quello che facevo, avvertivo una strana sgraziataggine, che incominciava dalla voce. M’era venuta una voce antipatica, che non era né più da soprano (come la mia di prima) né, ancora, da tenore (come la mia di dopo): pareva quella di uno strumento scordato. E tutto il resto, era come la voce. La mia faccia era ancora di un disegno piuttosto rotondo, liscia; e il corpo, invece no. Il vestito di prima non mi entrava più, così che N., benché nemica, dovette occuparsi di aggiustare per la misura mia certi pantaloni da marinaio che una sua amica bottegaia le dette a credito. E intanto io avevo l’impressione di crescere senza grazia, in una maniera sproporzionata. Le mie gambe, per esempio, in poche settimane erano diventate così lunghe da impacciarmi; e le mani mi s’erano fatte troppo grandi in confronto al corpo, rimasto magro e snello.
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