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LIBRI e PUBBLICAZIONI
L'angolo in cui L'isola di Arturo, attraverso la presentazione di alcuni brani, presenta e consiglia testi letterari sui temi socioculturali
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E ora immaginate una città intera che si fonda sull’industria tessile, costellata di decine e decine di aziende come la nostra, tutte in continua crescita e tutte interconnesse in un sistema di lavoro follemente frammentato ma incredibilmente efficace, fatto di centinaia di microaziende spesso a conduzione famigliare che si occupano di una fase intermedia della lavorazione del prodotto, ognuna col suo nome, il suo orgoglio, il suo bilancio in utile – rappresentazione perfetta della realtà del sogno più stimolante del capitalismo, quel rarissimo fenomeno che lo rende quasi morale, per cui gli operai più capaci e più volenterosi che decidono di mettersi in proprio e diventare imprenditori possono provare a farlo con una certa possibilità di successo, compiendo così il primo passo su una scala mobile sociale che sembra non volersi fermare mai, e crea ricchezza distribuendola in modo se non equo – non è mai equo – certamente capillare. Ma la cosa bella, la cosa veramente strepitosa era che non bisognava essere un genio per emergere, perché il sistema funzionava così bene che facevano soldi anche i testoni, purché si impegnassero; anche i tonti, purché dedicassero tutta la loro vita al lavoro.
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Non è stata una buona giornata, davvero.
Durante la mia snervante camminata quotidiana sulla spiaggia, mentre facevo lo slalom trai bagnanti che vociavano e fumavano e si tuffavano in acqua e ridevano di nulla, tra i bambini che piangevano con la sabbia negli occhi e le mamme che li rincorrevano per consolarli e i vecchi che sembravano saggi solo perché sedevano dritti a guardare il mare, non riuscivo a non pensare a che cosa farà tutta questa gente quando i loro posti di lavoro si volatilizzeranno, come sta per succedere.
E io? Che farò, io?
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Per sempre sta a significare che a quarantaquattro anni mi sono finalmente reso conto che il costo della vita sono i ricordi; che ogni legame con la mia giovinezza è ormai affidato solo alla mia memoria, mostro implacabile e impossibile da zittire; che esistono cose e persone e avvenimenti e amori e dolori e felicità laceranti che non riuscirò mai più a dimenticare e che staranno con me, appunto, per sempre; che la lavagna della mia vita, insomma, non si può più cancellare, e ogni cosa nuova che mi venisse in mente di scriverci sopra dovrà trovare posto nei pochi spazi ancora vuoti.
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Erano artigiani, straordinari e fragilissimi artigiani, lontani pronipoti dei maestri di bottega medievali, e ciononostante rappresentavano l’ossatura di un sistema economico che incredibilmente si reggeva su di loro, e anche se era ben lungi dall’essere perfetto, funzionava, eccome se funzionava, e si basava su quelle che all’epoca erano le regole del libero mercato. Un sistema che aveva consentito all’Italia di risorgere dalle macerie della guerra, garantito diritti e stabilito doveri, sparso benessere e dato lavoro a milioni di persone, pagato pensioni e ricoveri all’ospedale, case e automobili, televisori e vestiti, creato e realizzato sogni e alimentato illusioni – e anche se il cinema e la letteratura di quegli anni facevano a gara per sbeffeggiarlo e sprezzarlo, quel nostro caotico e vitalissimo sistema economico creato da artigiani senza cultura era stato il più importante dei fattori che avevano fatto diventare una nazione moderna la mediocre, ringhiosa e impaurita Italia fascista.
È questa la nostra storia.
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