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LIBRI e PUBBLICAZIONI
L'angolo in cui L'isola di Arturo, attraverso la presentazione di alcuni brani, presenta e consiglia testi letterari sui temi socioculturali
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E ora immaginate una città intera che si fonda sull’industria tessile, costellata di decine e decine di aziende come la nostra, tutte in continua crescita e tutte interconnesse in un sistema di lavoro follemente frammentato ma incredibilmente efficace, fatto di centinaia di microaziende spesso a conduzione famigliare che si occupano di una fase intermedia della lavorazione del prodotto, ognuna col suo nome, il suo orgoglio, il suo bilancio in utile – rappresentazione perfetta della realtà del sogno più stimolante del capitalismo, quel rarissimo fenomeno che lo rende quasi morale, per cui gli operai più capaci e più volenterosi che decidono di mettersi in proprio e diventare imprenditori possono provare a farlo con una certa possibilità di successo, compiendo così il primo passo su una scala mobile sociale che sembra non volersi fermare mai, e crea ricchezza distribuendola in modo se non equo – non è mai equo – certamente capillare. Ma la cosa bella, la cosa veramente strepitosa era che non bisognava essere un genio per emergere, perché il sistema funzionava così bene che facevano soldi anche i testoni, purché si impegnassero; anche i tonti, purché dedicassero tutta la loro vita al lavoro.
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Non è stata una buona giornata, davvero.
Durante la mia snervante camminata quotidiana sulla spiaggia, mentre facevo lo slalom trai bagnanti che vociavano e fumavano e si tuffavano in acqua e ridevano di nulla, tra i bambini che piangevano con la sabbia negli occhi e le mamme che li rincorrevano per consolarli e i vecchi che sembravano saggi solo perché sedevano dritti a guardare il mare, non riuscivo a non pensare a che cosa farà tutta questa gente quando i loro posti di lavoro si volatilizzeranno, come sta per succedere.
E io? Che farò, io?
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Per sempre sta a significare che a quarantaquattro anni mi sono finalmente reso conto che il costo della vita sono i ricordi; che ogni legame con la mia giovinezza è ormai affidato solo alla mia memoria, mostro implacabile e impossibile da zittire; che esistono cose e persone e avvenimenti e amori e dolori e felicità laceranti che non riuscirò mai più a dimenticare e che staranno con me, appunto, per sempre; che la lavagna della mia vita, insomma, non si può più cancellare, e ogni cosa nuova che mi venisse in mente di scriverci sopra dovrà trovare posto nei pochi spazi ancora vuoti.
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Erano artigiani, straordinari e fragilissimi artigiani, lontani pronipoti dei maestri di bottega medievali, e ciononostante rappresentavano l’ossatura di un sistema economico che incredibilmente si reggeva su di loro, e anche se era ben lungi dall’essere perfetto, funzionava, eccome se funzionava, e si basava su quelle che all’epoca erano le regole del libero mercato. Un sistema che aveva consentito all’Italia di risorgere dalle macerie della guerra, garantito diritti e stabilito doveri, sparso benessere e dato lavoro a milioni di persone, pagato pensioni e ricoveri all’ospedale, case e automobili, televisori e vestiti, creato e realizzato sogni e alimentato illusioni – e anche se il cinema e la letteratura di quegli anni facevano a gara per sbeffeggiarlo e sprezzarlo, quel nostro caotico e vitalissimo sistema economico creato da artigiani senza cultura era stato il più importante dei fattori che avevano fatto diventare una nazione moderna la mediocre, ringhiosa e impaurita Italia fascista.
È questa la nostra storia.
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Il rumore delle chiacchiere dei bambini stupiti aumenta ogni volta che l’assistente sociale cambia canale con il telecomando. Shlomo, seduto a gambe incrociate, beve letteralmente questo spettacolo incomprensibile. Quando era più piccolo, la mamma gli raccontava delle fiabe tramandate dai vecchi, storie di piccoli uomini, buffoni che vivevano alla corte del Faraone d’Egitto. I pigmei. Lui non se li immaginava tanto piccoli come quelli sullo schermo e pensava che fossero neri, mentre in quella scatola ha contato almeno cinquanta pigmei bianchi, compresi i musicisti.
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Lo psicologo prende tempo:
“Vi chiedo di riflettere qualche secondo. Quel che è successo la notte scorsa è grave, ma normale. Cos’ha fatto questo bambino? È fuggito, a piedi nudi con addosso un lenzuolo, alla maniera degli Etiopi. Dove andava? Ricordate, era diretto a Sud… Il suo Paese di origine, l’Etiopia. Perché? Sappiamo che la madre è morta tenendogli la mano meno di una settimana fa. Mentalmente, Shlomo tenta di raggiungere la sua vita anteriore, là dove i parenti,i fratelli sono scomparsi. L’Etiopia. Non credo che la soluzione consista nel trovare un’altra scuola, né più o meno severa, questo bambino tenta di ridare vita alla madre, ai suoi cari. E tornando verso la madre, torna nel passato.ma resta il fatto che noi siamo incapaci di aiutarlo, incapaci di ridare senso alle immagini che lo ossessionano. Questo bambino si consuma di disperazione…”
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Più tardi, avvolta da un accappatoio caldo, Yael entra nella camera di Shlomo, con cautela. A letto non c’è, si è addormentato per terra, come è sua abitudine. Allora abbozza un gesto, ma si trattiene, per paura di svegliarlo. Si siede, intenerita, e osserva il bambino, pensando alla sua esistenza passata, alle storie dell’esodo, agli orrori che ha sopportato. Cerca di immaginarne i genitori, le loro facce, pensa al terrore che quel bambino ha vissuto, e che persiste ancora. Sarà capace di aiutarlo?
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“Amore, ho riflettuto molto sulla storia della scimmia coperta di spine. Non deve strapparsi le unghie per togliere le spine che sono sotto, si farebbe troppo male. Ma, sai, con l’aiuto di qualcun altro potrebbe, piano piano, togliere quelle che le ricoprono il corpo. Si sentirebbe meglio. Quanto alle spine sotto le unghie, dovrebbe imparare a conviverci. So che è difficile, ma fanno parte della sua vita. Col tempo dimenticherà che le fanno male. Un giorno forse sarà persino fiera delle sue spine…”
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È un po’ come in quei film dove si vede la vita scorrere velocissima. Cosa si sa dei dolori, della rabbia, delle frustrazioni che provano gli esiliati, gli avventurieri moderni in cerca di lavoro, gli studenti, i corsisti del Sud che il più delle volte vivono nel bisogno, dei lunghissimi anni nelle megalopoli straniere dell’emisfreo Nord? Chi sa perché tanti abbandonano, mentre tanti altri hanno la megliosulle avversità e sul dolore?
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gli autori:
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Io, nelle mia felicità naturale, scansavo tutti i miei pensieri dalla morte, come da un impossibile figura di vizi orrendi: ibrida, astrusa, piena di male e di vergogna. Ma nello stesso tempo, quanto più odiavo la morte, tanto più mi divertivo e mi esaltavo a far prova di audacia; anzi, nessun gioco mi piaceva abbastanza, se non c’era il fascino del rischio. E così, ero cresciuto in questa contraddizione: di amare la prodezza, odiando la morte. Può darsi, tuttavia, che non fosse una contraddizione.
Tutta la realtà mi appariva limpida e certa: solo la macchia astrusa della morte la intorbidiva; e dunque i miei pensieri, come ho detto, indietreggiavano con orrore, a quel punto. Ma in simile orrore io credevo di riconoscere, d’altra parte, forse un indizio fatale della mia immaturità, quale la paura del buio in certe femminelle ignoranti (l’immaturità era la mia vergogna).
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Quando nasceva una femmina, a Procida, la famiglia era scontenta. E io pensavo alla sorte delle femmine. Da bambine, esse ancora non apparivano più brutte dei maschi, né molto diverse; ma per loro non c’era la speranza di poter diventare, crescendo, un bello e bravo eroe. La loro sola speranza, era di diventare le spose di un eroe: di servirlo, di stemmarsi del suo nome, di essere la sua proprietà indivisa, che tutti rispettano; e di avere un bel figlio da lui, che somigliasse al padre.
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Nell’annunciarmi che sposava quella ignota napoletana, mio padre, con un tono doveroso (che pareva artefatto, tanto gli era insolito), mi aveva detto: - Così tu avrai una nuova madre. – E io, per la prima volta da quando ero nato, avevo provato un senso di rivolta contro di lui. Nessuna donna poteva dirsi mia madre, e nessuna io volevo chiamare con questo titolo, fuorché una sola, che era morta! Adesso in quest’aria brumosa, io la ricercavo, l’unica mia madre, la mia regina orientale, la mia sirena; ma lei non rispondeva. Forse, per l’arrivo dell’intrusa, si era nascosta o era fuggita via.
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D’un tratto io presi una corsa e, sopravvenendole alle spalle le dissi: - Sono qui.
In un trasalimento di sorpresa, si volse contenta,; e rimbrotto: - Dove te ne stavi? Già ti metti in giro!
Quindi come confusa da un che di aggressivo nei miei modi, mormorò, riguardandomi: - Artù, in questi pochi giorni ti sei fatto più alto…
A tali sue parole (sia per davvero, durante la breve malattia, io fossi cresciuto un altro poco, o sia piuttosto che lei, scalza com’era, mi si svelasse più piccola del solito) io mi accorsi allora, per la prima volta, che la sopravanzavo ormai di statura.
Questo mi parve il segno di una mia potestà anziana, fiera e gioiosa; e intanto ella si andava discostando impercettibilmente da me: ciò era come confessarmi che le batteva il cuore… All’improvviso la strinsi, baciandola sulla bocca.
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L’ho detto, che quella fu una bizzarra stagione per me. Il contrasto tra me e la matrigna non era che uno degli aspettidella grande guerra che, rapidamente, col rifiorire della primavera, sembrava essersi scatenata tra Arturo Gerace e tutto il creato restante. Il fatto era che il ritorno della bella stagione in quell’anno per me si accompagnò, credo, col passaggio di quell’età, che vien detta, dalle buone famiglie, età ingrata. Non m’era mai accaduto, prima, di sentirmi così brutto: nella mia persona, e in tutto quello che facevo, avvertivo una strana sgraziataggine, che incominciava dalla voce. M’era venuta una voce antipatica, che non era né più da soprano (come la mia di prima) né, ancora, da tenore (come la mia di dopo): pareva quella di uno strumento scordato. E tutto il resto, era come la voce. La mia faccia era ancora di un disegno piuttosto rotondo, liscia; e il corpo, invece no. Il vestito di prima non mi entrava più, così che N., benché nemica, dovette occuparsi di aggiustare per la misura mia certi pantaloni da marinaio che una sua amica bottegaia le dette a credito. E intanto io avevo l’impressione di crescere senza grazia, in una maniera sproporzionata. Le mie gambe, per esempio, in poche settimane erano diventate così lunghe da impacciarmi; e le mani mi s’erano fatte troppo grandi in confronto al corpo, rimasto magro e snello.
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Di lì a due mesi, Maria non si era ancora abituata alla vita della casa di cura. Sopravviveva sbocconcellando appena il vitto del carcere con le posate fissate al tavolo di legno grezzo, e lo sguardo puntato sulla litografia del generale Francisco Franco che presiedeva la lugubre mensa medievale. All’inizio opponeva resistenza alle ore canoniche con la loro consueta serie sciapa di mattutini, laudi, vespri, e altri uffizi di chiesa che prendevano la maggior parte del tempo.
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Quel giorno, mentre assicurava porte e finestre in previsione del disastro, ci parlò della tramontana come se fosse stata una donna abominevole ma senza la quale la sua vita non avrebbe avuto senso. Mi stupì che un uomo di mare si rendesse un simile tributo a un vento di terra.
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La signora Forbes era arrivata l’ultimo sabato di luglio col battello che faceva la spola da Palermo, e già al vederla per la prima volta ci rendemmo conto che la festa era finita. Arrivò con certi stivali da soldato, e un vestito a doppiopetto in quel caldo meridionale, e con i capelli tagliati come quelli di un uomo, sotto il cappellino di feltro.
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Era la prima volta che si allontanava dalla sua terra. Era passato per tutte le scuole private e pubbliche , ripetendo sempre la stessa classe, finché era rimasto a galleggiare in un limbo di disamore. La prima visione di una città diversa dalla sua, i blocchi di case cinerognole con le luci accese in pieno giorno, gli alberi spelati, il mare distante, tutto accresceva in lui una sensazione di abbandono che si sforzava di tenere al margine del cuore.
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La mia infanzia fu un’epoca di paure taciute: terrore di Margara, che mi detestava, che apparisse mio padre a reclamarmi, che mia madre morisse o si sposasse, del diavolo, dei giochi bruschi, delle cose che gli uomini cattivi possono fare alle bambine. Che non ti venga in mente di salire sulla macchina di uno sconosciuto, non parlare con nessuno per la strada, non lasciare che ti tocchino il corpo, non ti avvicinare agli zingari. Mi sentii sempre diversa, da quando riesco a ricordare sono stata emarginata, non appartenevo realmente alla mia famiglia, al mio ambiente sociale, a un gruppo. Suppongo che da questo sentimento di solitudine nascano le domande che spingono a scrivere, nella ricerca delle risposte germinano i libri.
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Ogni notte i sogni mi aspettano acquattati sotto il letto con il loro carico di visioni terribili, campanili, sangue, lugubri lamenti, ma anche con una messe sempre fresca di immagini furtive e felici. Ho due vite, una da sveglia e una addormentata. Nel mondo dei sogni ci sono paesaggi e persone che conosco già, lì esploro inferni e paradisi, volo nel cielo nero del cosmo e scendo in fondo al mare dove regna il silenzio verde, incontro decine di bambini di ogni sorta, anche animali impossibili e i delicati fantasmi dei defunti più cari. Nel corso degli anni ho imparato a decifrare i codici e a capire le chiavi dei sogni, adesso i messaggi sono più nitidi e mi servono per rischiarare le zone più misteriose dell’esistenza quotidiana e della scrittura.
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I figli hanno condizionato la mia esistenza, da quando sono nati non ho più potuto pensare in termini individuali, sono parte di un trio inseparabile. Una volta, diversi anni fa, volli dare la precedenza ad un amante, ma non mi riuscì e alla fine rinunciai a lui per tornare in famiglia. Questo è un argomento di cui dovremo parlare più avanti, Paula, per ora è bene passarlo sotto silenzio. Non mi venne mai in mente che la maternità fosse opzionale, la consideravo inevitabile, come le stagioni.
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Ebbi un primo indizio degli svantaggi legati al mio sesso quando ero ancora una mocciosa di cinque anni e mia madre mi insegnava a lavorare a maglia nel corridoio della casa di mio nonno, mentre i miei fratelli giocavano sull’olmo del giardino. Le mie dita maldestre cercavano di annodare la lana con gli aghi, mi cadevano i punti, mi si aggrovigliava la matassa, sudavo per lo sforzo di concentrarmi, e in quella mia madre mi disse: siediti con le gambe unite come una signorina. Scagliai l0ontano il lavoro e in quel momento decisi che sarei diventata un uomo; mi mantenni ferma in quel proposito fino agli undici anni, quando gli ormoni mi tradirono alla vista delle orecchie monumentali del mio primo amore e il mio corpo cominciò inesorabilmente a cambiare. Sarebbero dovuti passare quarant’anni perché accettassi la mia condizione e capissi che, con uno sforzo doppio e metà riconoscimento, avevo ottenuto ciò che a volte ottengono alcuni uomini.
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Il gioioso processo di generare un bambino, la pazienza di crescerlo dentro, la forza necessaria per darlo alla luce e il sentimento di profonda meraviglia in cui culmina, posso paragonarlo solo a quello di creare un libro. I figli, come i libri, sono viaggi all’interno di noi stessi in cui il corpo, la mente e l’anima mutano direzione, si volgono verso il centro stesso dell’esistenza.
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Eravamo negli anni Novanta. Fu allora che osai chiedere aiuto a mia madre, ma l’unica cosa che mi sentii dire fu: “Io te lo dicevo sempre. Lo hai voluto e ora te lo devi cavare da sola”. Qui capii che ero rimasta veramente sola.
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Davanti alla Dirigente gli disii: “Quante denuncie avrei dovuto fare per tutte le volte che mi hai massacrato di botte?”
Lui con aria strafottente si giustificò dicendo che quando lo faceva era ubriaco.
Osservai lo sguardo della Dirigente , aveva capito chi aveva di fronte , ma disse: “Signora, firmi e la denuncia si chiude qui”. Firmai.
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Alle quattro del mattino, mentre dormivo, il bastardo venne vicino a me e diesse: “Vir che t’ rong!” (vedi che ti do) e mi versò addosso una bottiglia di acido.
La fronte, gli occhi, il naso, il collo, i capelli lunghi sulle spalle, il braccio, i fianchi fino alla gamba bruciavano.
Il mio corpo bruciava e anche la mia anima.
Ma è possibile? Mi chiedevo. È possibile che è arrivato a tanto?
Mio marito non era un Talebano, era un commerciante di pesce di Salerno.
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Credo sia impossibile spiegare a chi non ha figli cosa sia avere un figlio. Perché non è il contrario di non averlo. È qualcos’altro. Solo fino a quando non hai figli puoi pensare a una simmetria tra assenza e presenza: quando poi ce li hai, scopri che sono due condizioni non alternative, ma senza legame: infatti ti sembra di non riuscire più a spiegarlo, ti sembra che i pensieri che avevi prima erano ingenui. Avere un figlio è qualcosa che sposta la vita in un angolo inimmaginabile prima; un angolo che non esisteva.
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Fino a quando l’infermiera non mi ha allungato Beatrice avvolta in una coperta azzurra, un minuto dopo che era nata, non avevo mai preso un neonato in braccio. Un attimo prima non hai mai fatto un gesto – ed è qualcosa di più di non saperlo fare; un attimo dopo lo fai e scopri che o sai fare benissimo. E’ tua figlia, quindi tu automaticamente sai essere suo padre.
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Una mattina, alle cinque, io e Teresa eravamo svegli, pieni di angoscia e di pensieri. Abbiamo cominciato a parlare di cosa fare, abbiamo cominciato di nuovo a discutere, sussurrando. Ma quasi subito è arrivata Beatrice che si è infilata nel lettone perché anche nel sonno capisce che stiamo discutendo e non lo sopporta. Ha detto: ”Basta a papà parlare con mamma”, l’ha detto con sintassi affaticata perché voleva dire molto di più. Così abbiamo smesso.
Ma nel silenzio ha aggiunto: “Tanto lo so che non vi volete bene”.
A prescindere da ciò che stava succedendo, è una conclusione a cui sapevo con certezza che sarebbe giunta, prima o poi. Perché sapevo che una frase assurda di Teresa di qualche anno fa un giorno ci si sarebbe ritorta contro. E finalmente stava succedendo.
Una volta Beatrice ha chiesto perché non aveva un fratellino o una sorellina, Teresa ha detto che forse sarebbe successo. Beatrice ha chiesto: e come succede? E Teresa, per imbarazzo e impreparazione, ma anche per cominciare a dire una cosa che avesse un minimo di verità, ha detto che i figli nascono quando mamma e papà si vogliono molto bene. In seguito ha tentato più volte di modificare quella frase, di precisarla, ma non è riuscita a tornare più indietro. Da allora, nello sguardo di Beatrice, ogni anno che passa, c’è una tristezza nel constatare che per forza di cose, poiché fratellini e sorelline non sono venute, io e la mamma non ci amiamo abbastanza. Stavolta sappiamo tutti e due, anzi tutti e tre, che per Beatrice ciò che sta succedendo è dimostrato da quella frase.
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…(Milano)…
A scuola, le maestre si trovano a gestire i problemi ordinari con bambini di quell’età, a prescindere dal Paese di origine, “Stamattina, per esempio ho dovuto spiegargli la differenza tra scherzo e dispetto” racconta, “non è stato facile, abbiamo parlato delle <<parole piuma>> e delle <<parole sasso>>, mi ha aiutata la maestra di sostegno che è una psicologa, per fortuna, bravissima” (in classe c’è un bambino down molto affettuoso). Non sempre i genitori sono d’aiuto: “Certi li vedo un po’ troppo ‘leggeri’. Se un bambino consuma uno stick di colla sulla sedia del compagno e lo fa sedere, io e la collega lo sgridiamo, il genitore magari dice <<che bello scherzo>> e ride. Oppure cercano strane motivazioni psicologiche”. Poi ci sono casi di bambini aggressivi, “devi ripercorrere la loro storia, l’educazione, per capire da dove gli esce, a volte ti vengono dubbi che ci siano violenze a casa”. E bisogna fare sempre più attenzione al rischio di bullismo.
In aggiunta ci sono le difficoltà specifiche degli alunni migranti. I ricongiungimenti, per esempio, sono un passaggio critico.
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…(Brescia)…
E poi c’è il vero punto di forza della <<Manzoni>>: in questo crogiuolo, ciascuno mantiene la propria identità. Rispetto ad altre scuole in cui gli italiani sono in maggioranza e i bambini stranieri non possono fare a meno di percepire la propria diversità, oppure dove c’è una componente monoetnica accanto agli italiani, come accade nei quartieri <<cinesi>>, e facilmente si crea il <<noi contro loro>>, qui tutti sono diversi. La diversità è la normalità. Questo è rassicurante per i bambini, ognuno può essere se stesso: che venga dal Marocco, dalla Cina o dalla Tunisia, nessuno si sente inferiore. Tutti sono stranieri per qualcuno e tutti sono bresciani.
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…(Padova)…
“L’epoca degli sgomberi è stata un incubo” racconta la maestra Roberta, “perché la scuola è stata presa nel calderone della stigmatizzazione del quartiere. Siamo finiti alla ribalta anche noi, anche se non succedeva nulla, anzi: in quel periodo in realtà facevamo integrazione, c’era ancora una componente italiana forte e gestivamo positivamente una convivenza che nel resto del quartiere invece era un problema, un fatto di cronaca. I bambini che abitavano in via Anelli frequentavano senza problemi, alcuni di loro hanno raccontato a scuola che gli avevano sfondato la porta di casa.
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…(Napoli)…
La scuola ha un ruolo cruciale: “Rimane uno dei pochi luoghi, istituzioni pubbliche, che indipendentemente dalle scelte della politica non può girarsi dall’altra parte: ha i ragazzini dentro. È il luogo dove ci giochiamo buona parte delle possibilità di convivenza, o meno. Perché mentre l’Amministrazione di una grande città può dire <<non li vedo>>, la scuola no! Non è solo con l’immigrazione, questo: qui tu hai l’immigrato e il figlio del camorrista nella stessa classe. La scuola è il luogo dove ci giochiamo il futuro, nel Centro-Nord l’hanno capito” (chi più e chi meno, in verità, da quanto ho potuto vedere: ma si sa, l’erba del vicino è sempre più verde.
Andrea conferma che la presenza di stranieri – se una scuola, come quella di Carmine, lavora bene – può essere un forte incentivo. “Gran parte degli stranieri ha un’aspettativa alta, rispetto alla scuola, chiede qualità. E poi, per esempio, qui c’è il problema di far innamorare tutti gli alunni della lingua, non solo gli stranieri, perché l’italiano è la lingua della sanzione e della norma, ma si vive in dialetto”” la lingua carnale, degli affetti, come il friulano del poeta Cappello.
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Lo sguardo del lettore di fronte a te, anziché posarsi sul libro aperto tra le sue mani, vaga in aria. Non sono occhi distratti, però i suoi: una fissità intensa accompagna i movimenti delle iridi azzurre. Ogni tanto i vostri sguardi s’incontrano. A un certo punto ti rivolge la parola, o meglio, parla come nel vuoto, pur rivolgendosi certamente a te:
- Non si meravigli se mi vede sempre vagare con gli occhi. In effetti questo è il mio modo di leggere, ed è solo così che la lettura mi riesce fruttuosa. Se un libro mi interessa veramente, non riesco a seguirlo per più di poche righe senza che la mia mente, captato un pensiero che il testo le propone, o un sentimento, o un interrogativo, o un’immagine, non parta per la tangente e rimbalzi di pensiero in pensiero, d’immagine in immagine, in un itinerario di ragionamenti e fantasie che sento il bisogno di percorrere fino in fondo, allontanandomi dal libro fino a perderlo di vista. Lo stimolo della lettura mi è indispensabile, e d’una lettura sostanziosa, anche se d’ogni libro non riesco a leggere che poche pagine. Ma già quelle poche pagine racchiudono per me interi universi, cui non riesco a dar fondo.
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- Anche per me tutti i libri che leggo portano a un unico libro, -dice un quinto lettore affacciandosi da dietro una pila di volumi rilegati, - ma è un libro indietro nel tempo, che affiora appena dai miei ricordi.
C’è una storia che per me viene prima di tutte le storie che leggo mi sembra portino un’eco che subito si perde. Nelle mie letture non faccio che ricercare quel libro letto nella mia infanzia, ma quel che ne ricordo è troppo poco per ritrovarlo.
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Per vincere il terrore, anziché chiudere gli occhi e non voler vedere né sapere, Salva era dell’idea che bisognasse tenerli bene aperti e raccogliere tutte le informazioni possibili: nomi, facce dei carcerieri, gradi militari, visite di altri ufficiali al campo, organizzazione gerarchica. Mi raccomandava di ricordare tutto ciò che potevo perché più avanti ci sarebbe servito. E le verità è che cercando di memorizzare tutto dimenticavamo un po’ la paura. Capii subito che Salvador era convinto che la sua vita non sarebbe finita in quella cava, e neppure la mia, se fossi rimasto con lui.
Quando i cancelli si aprirono, io corsi fuori stordito e in lacrime. Salva uscì con una missione. Non si reggeva in piedi ma aveva una missione. Riuscì a localizzare e trascinare avanti ai giudici novantadue alti ufficiali nazisti; alcuni non potemmo far altro che sequestrarli, sottoporli a processo sommario e giustiziarli. Io non fui abile come Salva, mi capitò tutto il contrario. Non portai mai a termine una missione: alla fine li catturava sempre qualcun altro o riuscivano a scappare. Sembrava che il destino si prendesse gioco di me. Li individuavo, li inseguivo, li accerchiavo e, quando ero vicino, mi sfuggivano, si dileguavano.
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L’anima di una città è un’entità a se stante, un presenza che si è andata formando col tempo e che è stata costruita dagli individui che vi hanno gioito e sofferto nel corso dei secoli. Più la città è antica e meno è modificabile è la sua anima da parte degli ultimi abitanti. Prendiamo il caso di Roma: per secoli è stata la meta di chiunque avesse qualcosa da dire. Michelangelo, il Caravaggio, il Bernini, Orazio, Giordano Bruno e migliaia di altri artisti e pensatori sono venuti qui a vivere e a morire. Come potrebbero le pietre di Roma essere uguali a quelle di Los Angeles?! E supponiamo che qualcuno mi sequestri e che, dopo avermi bendato, mi liberi in una strada a me sconosciuta di Milano o di Bologna; ebbene, io sono sicuro che, appena liberato, saprei riconoscere la città dove mi trovo. Direi: questa è Milano, oppure, questa è Bologna! Allora uno mi potrebbe chiedere: ma come hai fatto? Hai forse intravisto il Duomo, la torre degli Asinelli? Nossignore, gli risponderei, ho sentito sulla pelle l’anima dell’aria, dei tetti e degli intonaci della città.
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Lo guardo un poco, indeciso se lasciarmi andare, ma poi mi decido e sbotto: “Da un po’ di tempo ho la sensazione che un viaggio in Cambogia sia un’escursione nelle proprie paure e nelle proprie sofferenze. Ed è forse per questo, per le mie paure, che non riesco a restare estraneo al dolore dei bambini, e passando vicino a loro ne vengo travolto. Fra l’altro in questo Paese la loro sofferenza è, ovunque, troppo silenziosa e ignorata da tutti. All’inizio forse era così anche per me , cercavo di difendermi tentando di venirne a contatto poco alla volta, in modica quantità, e invece adesso questo dolore a me pare un urlo, e questo frastuono diventa ogni volta più insopportabile.”
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Lì vicino c’è un anziano monaco buddista che sta aspettando …
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Ribadisce che è proprio nel mio karma essere così fortunato.
Gli rispondo, in verità un po’ deluso, che non mi sto lamentando di quello che ho, anzi, che so bene di essere fortunato, perché comunque vivo di agi e non devofare molte rinuncie, perechè ho una famiglia che amo. Perché…
Mi interrompe: “No signor Marco, non ci siamo capiti! Queste non sono fortune, sono solo delle opportunità che la vita ti ha dato. Sta a te capirle e trarne i corretti insegnamenti per questa o, se ci credi, per le prossime vite. Le fortune, quelle che sono nel tuo karma, invece, sono altre.”
Lo guardo un po’ stupito: “Non capisco… quali sarebbero?”
“Quella migliore, la più grande di cui sei stato fornito, sta nel fatto che riesci a sentire il dolore dei bambini.”
“Non mi pare una fortuna – obietto scettico – non ci vuole molto. Il loro dolore, anche se soffocato e non esibito, non è silenzioso e se solo ti fermi ad ascoltarlo, emana un frastuono incredibile.”
Sorride di nuovo: “Ma tu potresti essere sordo… Vedi signor Marco, il dolore è come il rumore dell’erba che cresce. Ogni giorno, di poco o di tanto, l’erba cresce fino a morirne. E crescendo fa rumore. Ad alcuni può sembrare una dolce melodia, ad altri un frastuono. Ma fa rumore. Eppure solo pochi riescono a sentire. Anche il dolore, quello dei bambini soprattutto, è così. Per alcuni non si sente, mentre per altri è insopportabile. Tu hai questa fortuna: non sprecarla.”
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Vorrebbe risponderle: ma come? Sei tu che l’hai insegnato a me. Mi hai insegnato che è adesso, proprio adesso che non dobbiamo trasformare i nostri figli nella scusa per perdere definitivamente il contatto con quello che davvero siamo, anche se è scomodo, soprattutto se è scomodo… E vorrebbe dirle che non è solo lei: è tutta la sua storia che è diventata madre, e magari una storia diversa da quella che aveva immaginato, magari è una storia di cui in realtà non ha capito niente, magari è davvero una storia tutta sbagliata, ma Alba è venuta al mondo grazie a quella storia. E chissà che non sia arrivata anche per rilevarle che ci sono dei passaggi che lei non ha ancora capito. Un protagonista che aveva confuso con qualcuno che passava di lì per caso equalcuno che passava di lì per caso che aveva confuso con un protagonista. Chissà. L’importante è che adesso – proprio adesso – lei sappia che ci sono labirinti dove, per uscire, dobbiamo mollare il filo che avevamo in mano, invece di tenerlo stretto.
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“Mi sarebbe piaciuto vederti con la pancia.”
“Avevo i super poteri, in gravidanza. Appena ho scoperto di essere incinta ho pensato: no, non è vero. Non è possibile che tocchi proprio a me.ho fatto tre test di gravidanza, scendevo in farmacia e risalivo a casa… Sì, sì e sì: è proprio a te che tocca, mi ripetevano i test… Non lo sapevo se ero pronta, non lo sapevo se sarebbe stato pronto Damiano, anzi certamente no, non lo eravamo… Ma quello che ho saputo subito è che lo volevo. Questo bambino io lo voglio: tutte le voci che dentro di me sono sempre state abituate a scontrarsi, per la prima volta, in quarant’anni, dicevano la stessa cosa. E il senso di scollamento fra me e la vita che facevo, per nove mesi, è scomparso… Non ho mai amato il mio corpo come quando ero incinta. Ho anche smesso di fumare, pensa.”
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Quindi, io risponderei: significa mettere in gioco, con quel bambino e quella bambina, tutto. Ma proprio tutto. Ecco che cosa significa diventare genitore. Capire che non lo diventi solo tu, la persona che sei o almeno credi di essere in quel momento, ma lo diventa tutta la tua storia. Il kite, le sfighe, le botte di culo…”
“Le persone che hai amato, quelle che non ami più, quelle che amerai per sempre…”
“Ivicoli ciechi, le scorciatoie.”
“Le birre!”
“ E le infinite giornate che hai passato a non fare un cazzo di niente.”
“La paura, quando squilla un telefono.”
“Il fallimento di un ristorante.”
“I nostri morti.”
“Pure loro, certo.”
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A volte, quando i nostri figli si riaddormentano, mi giro a guardarli, o li ascolto respirare, e mi chiedo se sarebbero in grado di sopravvivere in mano ai coyote e che cosa gli accadrebbe se venissero lasciati al confine con gli Stati Uniti, da soli o affidati agli agenti della polizia di frontiera. Se si dovessero ritrovare soli, ad attraversa frontiere e paesi, i miei figli riuscirebbero a sopravvivere?
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Eppure, nonostante i pericoli, la gente continua a rischiare. Di sicuro rischiano i bambini. I bambini fanno quello che gli dice la pancia. Non ci pensano due volte a inseguire un treno in corsa. Lo affiancano correndo, si aggrappano a qualunque barra metallica a portata di mano, e si gettano su qualsiasi superficie vagamente stabile su cui poter atterrare. I bambini inseguono la vita, anche se quell’inseguimento può significare la morte. I bambini corrono e scappano. Forse è grazie al loro istinto di sopravvivenza che sono in grado di sopportare quasi tutto pur di arrivare dall’altra parte dell’orrore, qualunque cosa li aspetti lì.
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L’emergenza si aggraverà allargandosi, e le cose precipiteranno, a meno che tutti questi ragazzi trovino il modo di integrarsi rapidamente e pienamente. Questi ragazzi hanno visto il peggio. Arrivano e trovano un paese sconosciuto e una nuova lingua, ma anche un gruppo di estranei che d’ora in avanti devono considerare la loro famiglia. Devono affrontare le riunificazioni familiari, l’interruzione del loro percorso scolastico, una nuova cultura, il trauma.
…”Nico” Ahmed fa un tiro. “Facciamo finta che io sia te, e tu sia me. Immagina di essere nella tua città natale. La tua vita è bella, la tua famigliari sta vicina e tu stai studiando.”
I ciuffi di erba mi solleticano le caviglie tra i pantaloni e le scarpe. Davanti a noi si spande la città vecchia, uno stuolo di tegole e scalini ripidi e bianchi.
“Da bambino senti gli aerei volare in cielo e sganciare bombe da qualche parte. Bombardano lontano, ma che si avvicina ogni giorno.”
Si leva un suono improvvisoe guardo in alto, ma sono solo due piccioni che frullano le ali.
“Un giorno” contiunua “stai tornando da scuola e vedi cadaveri per strada. Sembrano vestiti abbandonati. E nel caos che segue, gruppi criminali iniziano a razziare la città.”
Mentre Ahmed parla i tetti davanti a noi crollano e i gradini spariscono sotto le macerie. L’aria odora di zolfo e i fumi del conflitto oscurano il sole. Non è Baghdad che vedo – come potrei anche solo immaginarla? – ma i ricordi di Ahmed sommergono il presente, e Samos non c’è più.
“Una mattina tuo padre riceve una lettera che dice che l’intera famiglia deve andarsene e lasciare tutto, oppure affrontare la morte. E quindi te ne vai.”
Vedo me stesso tra le macerie con mio fratello per mano, mia madre sul dorso di mio padre, troppo stanca per camminare, per aprire gli occhi. Ci aggiriamo furtivi nella notte, appresso una sola valigia; tutti i nostri averi.
“Vai a vivere con dei parenti in una città vicina.” Gli occhi di Ahmed brillano come monete sul fondo di uno stagno. “Ma lì la situazione è tale e quale. Un giorno la mafia trova tuo fratello minore, gli punta una pistola allo stomaco e spara.”
Sento il rumore dello sparo in lontananza, non so dire da dove arrivi stavolta.
“La settimana dopo viene il turno di tuo zio. E così te ne stai chiuso in casa, blocchi le finestre e le porte sapendo che è una questione di tempo prima che ti trovino e la facciano finita. E invece loro spariscono. Semplicemente, se ne vanno. E tu senti la speranza riaffiorare. Solo che il giorno dopo, attraverso un megafono, senti rimbombare la voce dei barbuti; /siamo ISIL. Abbiamo preso la città. Unitevi a noi, o vi uccidiamo./”
Ho un sussulto quando un prete ortodosso volta l’angolo. Ahmed trema e le lacrime gli rigano il volto.
“Allora i tuoi genitori ti mandano via. Spendono tutti i loro soldi perché tu possa attraversare le montagne e il mare, per raggiungere la sicurezza dell’Europa.”
Ogni parola di Ahmed si dipinge sulle macerie, e queste diventano monti e valli e gole mortali. E poi ancora: i militanti inturbantati nascosti tra le rocce, le capre e i bassi arbusti mutano, e le luci di una grande città turca prendono il loro posto, e appare Hammudi al fianco di Ahmed. Camminano l’uno accanto all’altro. Diversi i Paesi, l’età e il passato – ma la stessa ingiustizia.
“Raggiungi Samos prima degli accordi tra UE e Turchia, riparti dopo tre giorni, arrivi in Germania e ricevi finalmente l’asilo.” Un sorriso spunta tra i singhiozzi. “Ma poi ammazzano tuo padre. Devi tornare a casa, per il funerale e per prenderti cura di tua madre.”